DLT e blockchain, le molte incertezze normative

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In un’epoca di grande fermento da un punto di vista fintech e regolamentare, il crescente interesse delle varie autorità di vigilanza mondiali sul tema blockchain assume un’importanza strategica per molti nuovi player che sono costretti ora a fare i conti, prima di lanciare le loro nuove proposte di business, con un quadro regolamentare in continuo divenire.

La corretta pianificazione di una pipeline che tenga conto anche dei risvolti regolamentari è ora più che mai una necessità imprescindibile.

Proprio nell’alveo di un rinnovato interesse nazionale in materia blockchain, lo scorso 18 giugno il Mise ha avviato la pubblica consultazione con oggetto “Proposte per la Strategia nazionale in materia di tecnologie basate su registri condivisi e Blockchain” (“Documento Mise”). Le linee guida da seguire per permettere lo sviluppo e la diffusione delle distributed ledger technology (DLT), anche sub specie di blockchain, evidenziano il forte interesse che suscitano – in ambiti eterogenei – dette tecnologie.

Un’analisi del documento Mise

Uno dei primi elementi evidenziati dal documento Mise è l’incertezza normativa che permea la materia, cui segue la proposta di dotare il Paese di un quadro regolamentare competitivo nei confronti degli altri paesi, eventualmente anche promuovendo progetti e sandbox regolamentari volti a favorire l’introduzione e lo sviluppo di DLT e blockchain (come già avvenuto per il settore FinTech con il D.L. n. 34/2019, convertito nella L. 28 giugno 2019 n. 58).

Del resto, non vi è una definizione giuridica univoca di cripto-valute e token digitali, nonché delle attività a essi correlate. In attesa di un intervento normativo che ne dia una lettura puntuale e di sistema, è possibile, dunque, solo limitarsi a registrare le definizioni rilasciate da alcune istituzioni, le opinioni dottrinali espresse in materia e lo “stato avanzamento lavori”.

In termini a-tecnici, sembra utile individuare i termini che nel prosieguo saranno utilizzati per circoscrivere il fenomeno della c.d. cripto-attività.

Per “cripto valuta”, si intende una rappresentazione digitale di valore, non emessa né garantita da banche centrali né da altra autorità pubblica e priva dello status legale di valuta o di moneta. Per “token digitale”, si intende il gettone digitale emesso perlopiù in occasione di un Initial Coin Offerings. Si suole discutere di “security token” quando il token rappresenta una partecipazione, in termini di dividendi, diritti di voto, tassi di interessi e/o percentuale sugli utili, al successo dell’ente emittente, quindi diritti economici legati all’andamento dell’iniziativa imprenditoriale; di “utility token” quando il token rappresenta diritti diversi, legati alla possibilità di utilizzare il prodotto o il servizio che l’emittente intende realizzare, escludendo espressamente finalità di natura monetaria, speculativa e partecipativa.

Diverse sono le possibili qualificazioni giuridiche riconducibili alle cripto-valute e diverse le conseguenze che dalla qualificazione derivano ai sensi della normativa legale e regolamentare.

La posizione della Consob sulle cripto-valute

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La Commissione Nazionale per le Società e la Borsa (Consob) individuava incidentalmente la natura giuridica delle cripto-valute, con alcune delibere che ordinavano di porre termine alla violazione degli artt. 18 o 94 del d.lgs. 24 febbraio 1998 n. 58 (TUF) per lo svolgimento abusivo nei confronti del pubblico italiano o in assenza di preventiva comunicazione alla Consob, né pubblicazione del prospetto dei servizi e delle attività da parte di società che – anche tramite siti internet – consentivano di operare in “cripto-valute”. Solo per citare alcuni casi, la Consob sanzionava: (i) con delibera n. 19968 del 20 aprile 2017, la condotta di una società che svolgeva attività promozionale, rivolta a soggetti residenti in Italia e avente ad oggetto l’offerta al pubblico di “pacchetti di estrazione di cripto valute”; (ii) con delibera n. 20110 del 13 settembre 2017, la condotta di una società che, mediante il sito web, offriva al pubblico, rivolgendosi anche a soggetti residenti in Italia, “portafogli di investimento” cui era collegata la promessa di rendimenti periodici predeterminati; (iii) con delibera n. 20340 del 14 marzo 2018, la violazione dell’art. 18 TUF posta in essere anche tramite il sito internet che offriva, tra l’altro, la possibilità di accedere a una piattaforma consentendo agli utenti di effettuare operazioni di trading relative a contratti differenziali su coppie di cripto valute, i quali contratti, come tali, rientrano nel novero degli strumenti finanziari. Non tralasciando di considerare la diversa operatività delle società coinvolte, la Consob descriveva le cripto-valute oggetto dell’investimento o comunque oggetto di offerta al pubblico come strumenti che “possiedono le caratteristiche di un prodotto finanziario sub specie di investimento di natura finanziaria, la cui nozione implica la compresenza di: (i) un impiego di capitale; (ii) un’aspettativa di rendimento di natura finanziaria; (iii) l’assunzione di un rischio connesso all’impiego di capitale”. La categoria dei “prodotti finanziari”, infatti, è più ampia di quella degli “strumenti finanziari”. Ben si prestano a tale qualificazione le cripto-valute, atteso che – ex art. 1, co. 1, lett. u) TUF – prodotto finanziario è “ogni forma di investimento di natura finanziaria”.

Con un documento del gennaio 2020, rapporto finale in riscontro alle questioni emerse dall’analisi delle risposte alla consultazione avviata l’anno precedente e dal titolo “Le offerte iniziali e gli scambi di cripto-attività”, la Consob ha affrontato ordinatamente il tema, individuando gli aspetti definitori idonei a tipizzare le cripto-attività diverse da strumenti finanziari di cui all’art. 1, comma 2, TUF e da prodotti di investimento di cui al comma 1, lettere w-bis.1, w-bis.2 e w-bis.3 TUF, quale autonoma categoria[1].

La preoccupazione dell’Autorità di Vigilanza italiana, infatti, è che nel caso dei token vengono spesso prospettati “rendimenti” non chiaramente ricollegabili ai “rendimenti di natura finanziaria” di cui alla nozione di prodotto finanziario e che, al contempo, però presuppongono un investimento di risparmi. Poste tali premesse, l’approccio normativo regolamentare non può che avere quale ambito di applicazione gli investimenti aventi caratteristiche di finanziarietà, in forma di token, che incorporano il diritto a una prestazione futura, che può anche consistere nella possibilità di utilizzare un bene o ricevere un servizio che l’emittente/promotore promette di realizzare o ha in corso di realizzazione.

La Consob ipotizza, allora, di definire le “cripto-attività” in modo di dare evidenza della natura di registrazioni digitali rappresentative di diritti connessi a investimenti in progetti imprenditoriali, ricomprendendo la categoria soltanto quelle cripto-attività che sono destinate a essere negoziate o sono negoziate all’interno di uno o più sistemi di scambi.

Poiché caratterizzati dall’investimento di un capitale finanziario, dall’assunzione del relativo rischio e da un’aspettativa di rendimento, la definizione cattura gli elementi definitori del prodotto finanziario (di cui all’articolo 1, comma 1, lett. u), del TUF). Ma solo quando una cripto-attività presenta caratteristiche tali da consentire la sicura riconducibilità alla tipologia degli strumenti finanziari o dei prodotti di investimento, le relative attività (emissione, negoziazione, post-negoziazione) saranno attratti nella normativa di matrice europea di armonizzazione per gli strumenti finanziari e per i prodotti di investimento.

Nel caso contrario, normative pensate per rispondere a “classiche” esigenze non possono essere “adattate” a prodotti nuovi, condividendo con questi ultimi solo la finalità di tutela di chi investe i propri risparmi.

Il discrimen tra cripto-valute e strumenti e prodotti finanziari di cui alle discipline MiFID 2, PRIIP, PRIP e IBIP, è individuato da Consob in: (a) impiego di tecnologie innovative, tipo blockchain, onde incorporare nei token i diritti dei soggetti che hanno investito con l’obiettivo del finanziamento del progetto imprenditoriale sottostante, e (b) destinazione alla successiva negoziazione dei token (crypto-asset), la cui trasferibilità è peraltro strettamente connessa con la tecnologia impiegata, ovvero con la sua capacità di registrare e mantenere l’evidenza della titolarità dei diritti connessi con i crypto-asset in circolazione. Di tal ché si individuano tre elementi che caratterizzano la cripto-attività: finalizzazione al finanziamento di progetti imprenditoriali; impiego di tecnologia basata su registri distribuiti e scopo ultimo della circolazione delle cripto-attività in appositi sistemi di scambi.

Un quadro in divenire quindi, ma che permette già di porre alcuni punti fermi nel quadro regolatorio e che sicuramente potrà evolversi e raffinarsi con l’avvento delle nuove tecnologie già all’orizzonte e che, gioco forza, potrebbero già rendere le norme in essere vetuste.

D’altronde è ormai opinione comune che i regulators di tutto il mondo stiano “rincorrendo” il settore Fintech che avanza molto più velocemente di quanto l’analisi regolamentare riesca a fare.

Ecco allora che ci si potrebbe porre la domanda se non sia arrivato il momento di ripensare l’approccio normativo al fintech. Non utilizzare più i vecchi paradigmi e schemi ma creare regolamentazioni ad hoc per un settore ad hoc come il fintech. Il che non vuole necessariamente dire meno controllo e meno protezione, ma, forse, solo più aderenza alla realtà del mercato.

Uno sguardo all’approccio utilizzato in UK

L’approccio utilizzato da Consob nel trattare il tema delle DLT ricorda quello utilizzato dalla Financial Conduct Authority (FCA) che, dopo un periodo di pubblica consultazione, nel luglio del 2019, ha pubblicato la Guidance on Cryptoassets Feedback and Final Guidance to CP 19/3 con la quale fornisce chiarimenti su quali tipi di cripto-asset rientrano e quali non rientrano nelle competenze normative della sua vigilanza, gli obblighi che ne derivano per gli operatori del settore e le tutele regolamentari per i consumatori.

In particolare, la FCA definisce i cripto-assets quali rappresentazioni digitali crittograficamente protette di valore o diritti contrattuali che utilizzano un qualche tipo di DLT e possono essere trasferiti, memorizzati o scambiati elettronicamente. L’Autorità di Vigilanza distingue tra token regolamentati (security token e e-money token) e token non regolamentati. I token non regolamentati non prevedono diritti o obblighi simili rispetto a investimenti specifici (come azioni, titoli di debito e moneta elettronica). La categoria dei token non regolamentati comprende gli utility token che possono essere riscattati per l’accesso ad un prodotto o servizio specifico che viene tipicamente fornito utilizzando una piattaforma DLT. La categoria comprende anche token come Bitcoin, Litecoin ed equivalenti, e spesso indicati come “criptocurrencies”, “cryptocoins” o “payment tokens”. Questi token sono di solito decentralizzati e progettati per essere utilizzati principalmente come mezzo di scambio (exchange tokens). Il trasferimento, l’acquisto e la vendita di questi token, compresa l’operazione commerciale di scambi di cripto-asset per token di scambio, sono attività non regolamentate dalla FCA.

Ancora una volta, quindi, la FCA dimostra di agire da traino ed esempio per molti regulators europei nell’ambito fintech.

Resta da chiedersi se tale liaison potrà durare anche dopo la Brexit o se invece il regulator UK prenderà il volo per creare settori “diversamente” regolamentati in risposta alla crescente richiesta di servizi innovativi.

  1. Cfr. http://www.consob.it/documents/46180/46181/ICOs_rapp_fin_20200102.pdf/70466207-edb2-4b0f-ac35-dd8449a4baf1.

Le notizia proviene per gentile concessione da Blockchain 4 Innovation

Blockchain4innovation è la testata del Gruppo Digital 360 dedicata alla divulgazione delle tematiche Crypto e Blockchain e diretta da Mauro Bellini.

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